domenica 17 maggio 2009
Babilonia
Non capisco niente di quello che dicono. Ovvio, parlano una lingua che mi è totalmente sconosciuta e di cui sono riuscita a imparare solo 4-5 parole (bagundi,buono, per mostrare apprezzamento anche alla fine del più improbabile pasto; garu, luce, una traduzione approssimativa del mio nome; uandamalu, grazie al plurale; nilu, acqua, giusto perchè mi fa venire in mente il fiume Nilo e cucce, siediti, espressione che rappresenta l'apoteosi dell'ospitalità in Telugu. Far metter a sedere l'ospite e dargli qualcosa da mangiare, anche contro la sua volontà, sono regole imprescindibili della buona educazione). Dal momento che in ogni viaggio mi accompagnano almeno cinque persone e che tutte hanno una spiccata attitudine per la conversazione sguaiata, sono per la maggior parte del tempo circondata da parole, discorsi, scherzi, canzoni, di cui impotente ascolto il suono senza coglierne il significato.
La frustrazione è alleviata dall'allegria che regna costante. Per lo più è Murthy che fa una battuta dietro l'altra, e ride, ride, ride, qualsiasi cosa dica, qualsiasi cosa accada. Contagioso pure per me,un fantastico comunicatore, irresistibile anche per la più timida e riluttante signora del più sperduto villaggio che visitiamo. La moglie, Subbu, lo accompagna sempre (sospetto per garantire un'altra presenza femminile nella compagnia oltre a me). Sta zitta il più delle volte, ma son convinta che Murthy l'abbia conquistata proprio con le risate (no, non è vero, è stato di sicuro un matrimonio combinato come nel 90% dei casi da queste parti, ma si vede che si diverte un mondo accanto al marito).
Quando Murthy non chiacchiera o non ride, Israel si mette a cantare. Canta canzoni di vecchi Telugu movies, o tribal awereness songs,o il primo motivetto che gli passa per la testa. Ha due bimbi che gli sono attaccatissimi. Sta studiando per la seconda laurea, ha gli esami tra qualche giorno. Ma pensa già alla prossima. Disegna bellissime mappe dei villaggi con i pennarelli, che poi mi regala. Non riesce a star fermo un attimo, la tipica persona che una ne fa e otto ne pensa. Mi mette un po' in crisi, Israel. E' travestito da sempliciotto, ma nasconde una mente brillante.
Nei rari momenti in cui scende il silenzio, Shyam attacca con uno dei suoi ragionamenti di logica. Non so come suona in telugu, ma in inglese è una di quelle persone che tende a ripetere l'ovvio, credo per la soddisfazione di dire qualcosa di giusto, più che per riempire i silenzi. Tipo ieri, al termine di un viaggio estenuante. Attacca con: “And we also slept to Murthy's friend place. Nice guy. He also gave us dinner. But he doesn't eat much, just some chapati and vegetables. But he prepared chicken for us. And he prepared food for you. And he also prepared breakfast for you, with bread and eggs (n.d.r: che io avevo espressamente detto di non volere). But he as a good place, and good job. He travels a lot. Very nice guy. But no children. This makes me sad”. A me, a Nicola e all'autista, che abbiamo conosciuto l'amico di Murthy, dormito a casa e mangiato i suoi chapati e il suo pollo (bread and egg mi sono rifiutata), non rimane che sospirare e fare si con la testa.

Ogni tanto dal Telugu si passa all'inglese. Ma il più delle volte questo non aumenta la mia capacità di comprensione. L'accento indiano è ancora più terribile di quanto narrino le leggende. La lettera A nello spelling suona come iei, col risultato che sbaglio a scrivere tutti i nomi. Il pepe non cresce sugli alberi, per cui rimango un po' stupita quando chiedo che funzione abbiano certi filari di piante e mi sento rispondere “for pepper”. Per fortuna gli stessi filari ci sono anche in Toscana e deduco che siano per fare la carta.
Ma l'accento non è l'unico problema. Molte delle persone che incontro hanno una conoscenza approssimativa dell'inglese. Conoscono alcune parole chiave, ma ignorano totalmente la sintassi e la grammatica. Ansiosi di parlarmi, mettono le parole conosciute una accanto all'altra senza nessun riferimento spazio-temporale. Tipo “ english book teach” da cui ricavo che mi stanno chiedendo se ho dei libri per imparare l'inglese. O “because we tribal we poor but agencies ITDA development and also election and adivasi land village” da cui non ricavo un bel niente. Difficoltoso risulta essere anche l'uso dei pronomi. Poiché “tu” o “tuo” si dice “miru” in telugu e l'assonanza genera confusione, capita spesso che con aria interrogativa qualcuno mi chieda: “my name?” per sapere come mi chiamo, “my father work?” per sapere che lavoro fa mio padre, “my bath?” per sapere se mi voglio lavare.
La simpatia per l'uso dei pronomi è generalizzata anche a chi l'inglese lo dovrebbe conoscere. La maggior parte delle conversazioni cominciano con “he”, or “they”, or “his”, or “that fellow”, senza che nessun riferimento di chi o di cosa si stia parlando venga fornito. Il contesto è sempre dato per scontato e la maggior parte delle mie domande di chiarimento vengono mal-interpretate, per cui nella maggior parte dei casi devo indovinare la metà delle informazioni che mi vengono riportate. Ma è quando si mettono ad usare le sigle che mi fanno veramente diventare matta. Per chissà quale ragione pensano che io possa sapere che ISA è la sigla della più famosa compagnia di assicurazione indiana, che PO è Public Officer e che RDO è Revenue Department Officer.

Non c'è da stupirsi che abbia sempre mal di testa. Finchè non imparo a leggere nel pensiero, l'emicranea è uno dei tanti prezzi da pagare per fare ricerca in una lingua che non conosco aiutata da una improbabile e adorabile comitiva.
 
posted by Chiara at 13:40 | Permalink |


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