martedì 19 agosto 2008
Il taccuino della giungla

La gip blu, poco piu' piccola e bassa di un defender e'affondata nel fango; la strada sta diventando sempre piu' simile ad una palude e il sole cala ad una velocita' preoccupante. Catinelle d’acqua vengono giu' dal cielo (e'il monsone, baby) ma se fai tre passi nella foresta puoi rimanere asciutto usufruendo del provvidenziale ombrello offerto dai quindici strati di vegetazione che ti circondano. Le ruote della gip girano a vuoto schizzando fango ovunque e presto assumiamo tutti un colore intonato alla foresta. Le ciabatte indossate dall’autista num.1 vengono presto perse nella melma e dopo poco egli decide anche che i suoi pantaloni lunghi hanno da diventare corti perche' sia possibile continuare a spingere. La camicia dell’autista num. 2, che era rimasta immacolata nei due precedenti giorni di scorribande tra villaggi e strade dissestate, ha anch’essa assunto un aspetto selvaggio.
Dopo due ore di spinte, sollevamenti col crick e ricerca di stratagemmi basati sull’ingegneria meccanica viene deciso che solo la forza umana puo' risolvere la situazione. Ovviamente quella di quattro uomini e due fanciulle non e' sufficiente, per cui aiuto verra' richiesto ai giovani del villaggio tribale appena visitato.
La squadra di soccorso arriva solerte quanto i 5 chilometri che ci separano dal villaggio possono permettere. Sospetto che nonostante l’ora tarda (si avvicinano le sette ed e'ormai quasi buio) i nostri soccorritori trovino la faccenda piuttosto divertente e si stiano facendo sonore risate alle nostre spalle (mi chiedo come possa suonare uno sfotto' in telugu). Immagino l’ilarita' generata dal fatto che dal momento che li abbiamo salutati intono alle tre e mezzo del pomeriggio, e'gia' la seconda volta che li chiamiamo in aiuto. La prima volta ci siamo dovuti fermare perche' un enorme fascio di bambu' sbarrava completamente la strada. Una volta arrivati loro sul posto, la via e' stata sgomberata nel tempo necessario a preparare un paio di caffe'.
Con la gip, risolvono il problema sollevandola di peso e spostandola un po' piu' in la'. Certo, ci vuole un po’ di tempo ed anche l’aiuto di lunghi bastoni a fare da leva, ma di fondo la tecnica “uno due tre spingere” Ë quella che risulta piu' efficiente.
Visto che la situazione non puo' che peggiorare (sono le otto e continua a piovere, ci aspetta un tragitto di un’ora in condizioni normali), arruoliamo un paio di tribali per accompagnarci fino a destinazione. Sono padre e figlio e credo che in due non superino i cinquant’anni. Si portano dietro un’accetta e una specie di falcetto che hanno l’aspetto di ferro arrugginito, ma fanno fuori i tronchi d’albero che per due volte ci troviamo di fronte. Padre e figlio colpiscono il tronco con colpi netti e precisi ed una volta separatolo dalla chioma e dalle radici lo spostano dalla strada con la solita tecnica dei bastoni-leva.
Scopriamo poi che non possiamo dare la colpa di tutte le nostre sventure al monsone: uno dei due tronchi in realta' era stato tirato giu' dai nostri stessi angeli custodi in cerca di alveari col miele.

Verso le dieci la gip decide di fermarsi definitivamente nel punto piu' pericoloso di tutta la foresta, proprio sotto una frana che viene giu' dal fianco della montagna attraversando tutti e tredici i tornanti che ci separano dal villaggio dove dovremmo passare la notte. E’ terra rossa argillosa, friabile come una fetta biscottata.
Il motore non si riaccende. E’ il motorino di avviamento, dice Pagano, ma dai rumori che accompagnavano buche e accelerate temiamo qualcosa di peggio. Spingiamo per un’altra ora, ma senza successo. Per fortuna non piove piu', ma rimanere lÏ comincia a diventare pericoloso, per la frana e per gli inquilini della foresta, che come ci insegna Il Libro della Giungla, incudono scimmie, serpenti, orsi e tigri. In realta' gli otto chilometri di discesa al villaggio non sono per niente emozionanti (a parte qualche scivolone) e non si vedono nemmeno le stelle perchÈ la vegetazione e'troppo fitta e anche se fosse, dai quindici strati di nuvoloni che abbiamo sulla testa non filtrano brandelli di cielo. E’ mezzanotte passata quando arriviamo al villaggio e a darci il benvenuto ci sono solo i cani che abbaiano da dietro i recinti. Il fiume non si vede, ma in qualche modo se ne percepisce la presenza. Il fango ha preso il sopravvento ovunque.
Alloggiamo in una guest-house della forestale, dove miracolosamente il generatore porta l’elettricita'. Come in ogni foresta tropicale che si rispetti, gli insetti hanno preso il sopravvento nella camera e dobbiamo attendere un’altra ora prima che ci portino un barile d’acqua per lavarsi. In un tipico slancio di eccessiva gentilezza indiana, verso le due riescono a procurarsi e offrirci cetrioli, carote, cipolle e pomodori, che mangiamo sconditi e a fette quasi piangendo dallo sconforto. Sono ormai le tre quando riusciamo a sfuggire la foresta nascondendoci nei nostri sacchi a pelo
 
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mercoledì 6 agosto 2008
L’invenzione della ruota, ovvero quando l’amore si trasforma in odio
L’invenzione della ruota è stata accolta in India con un incontenibile e imperdurabile entusiasmo, al punto che non si è ancora esaurito e continua a produrre effetti devastanti.
Il possesso di un qualsiasi mezzo con ruote conferisce potere su tutti coloro che deambulano (ad eccezione delle mucche) e permette al fausto guidatore di avanzare nella scala sociale. Ovviamente esiste una gerarchia anche tra i mezzi su ruote: quelli a motore prevalgono su quelli a pedali, anche se non necessariamente sono quelli più grossi a comandare. Il potere assoluto è detenuto dagli auto-rickshaw, delle api verdi e gialle adibite al trasporto passeggeri. Poiché nelle maggiori città se ne trovano diverse migliaia e considerato che esse non riconoscono alcuna autorità né dimostrano alcun tipo di rispetto per il resto del mondo (ad eccezione forse delle mucche), per le strade vige la più totale anarchia.
In effetti, dopo la ruota e il motore, tutte le invenzioni connesse alla viabilità stradale non sono giunte nel sub-continente. Concetti quali: corsia di sorpasso, stop, precedenza a destra (anzi a sinistra visto che siamo in un paese del Commonwealth), passaggio pedonale, distanza di sicurezza, freccia, limite di velocità, marciapiede non sono contemplati.
L’unica regola è: non ci sono regole. Ho visto mucche pascolare nell’aiuola spartitraffico e dondolare contromano in un viale a quattro corsie. In generale non ha importanza il numero di corsie previste per una strada, perché il numero di veicoli affiancati può andare da 0 a infinito. La maggior parte dei veicoli ha gli specchietti retrovisori piegati all’interno in modo che non sporgano, perché qualsiasi estremità rischia di venir divelta nel giro di pochi minuti. Chi fa più casino passa per primo, così l’inquinamento acustico è a livelli da discoteca della Riviera Romagnola. L’arroganza dei mezzi non diminuisce nelle viuzze strette e nei bazar, per cui non c’è soluzione di continuità tra il carretto pieno di banane, la mucca che defeca, il venditore di saari, il mendicante poliomielitico che cammina sulle mani, una famiglia a cavalcioni di una moto (anzi l’unico a essere a cavalcioni è il marito, la moglie sta seduta di lato e tiene in collo il bimbo) e il turista che pensava di venire in India in cerca della spiritualità perduta e invece si ritrova con l’eusarimento nervoso e una sofferenza al timpano sinistro.
Ed è qui che una delle più vecchie verità del mondo viene fuori: tanto amore può generare tanto odio. Può darsi che gli indiani astraggano la viabilità e la mobilità da qualsiasi valutazione morale e sentimentale, per cui la totale mancanza di rispetto altrui e di gentilezza verso il pedone non vadano interpretati come una manifestazione di “cattiveria”. In uno slancio interpretativo si potrebbe dire che è tutta colpa del capitalismo: l’avvento del motore ha portato alla degenerazione del comportamento civico; dimostrare il proprio potere comandando sulla strada è più importante che rispettare le regole di base della convivenza. Ma anche a voler dare tutta la colpa al capitalismo, lo straniero non riesce ad astrarre e si incazza. Si stressa. Avrebbe voglia di imparare insulti in hindi così da farsi capire quando manda a quel paese l’ennesimo motorino che gli è quasi passato su un piede. L’esasperazione è accentuata dal fatto che tutti i rickshaw inseguono il turista per centinaia di metri pur di convincerlo ad usufruire dei propri servizi. Nessun tipo di diniego funziona, solo la maleducazione ci riesce. Non guardare in faccia e smettere di rispondere alle domande sono l’unico modo per liberarsi di autisti, guide improvvisate, procacciatori di clienti per alberghi e bazar.

Il paese dell’amore così ti costringe a odiare il prossimo, sentirti in colpa, cercare di affrontare il successivo giro(ne infernale) con più benevolenza e ironia, salvo poi ricaderci di nuovo. Mi chiedo se non sia un rito di purificazione anche questo.
 
posted by Chiara at 15:37 | Permalink | 3 comments
lunedì 4 agosto 2008
Dodici ore più, dodici ore meno
In India le infrastrutture fanno un po’ schifo, tutti sono d’accordo su questo. La rete stradale sembra essere particolarmente orripilante, ma per quel che ho potuto vedere, finchè il codice stradale non verrà applicato e la patente rilasciata solo dopo previo esame di guida, c’è poco che un’autostrada a sei corsie possa fare per migliorare la situazione.
Va però detto che col treno si può arrivare lontano. La più lunga rete ferroviaria al mondo attraversa il paese, il chè significa che si può coprire una distanza pari a quella che c’è tra Roma e Stoccolma senza mai scendere dal treno. Le distanze in pratica si misurano in mezze giornate di viaggio. Può allora succedere di acquistare senza scomporsi troppo un biglietto Varanasi-Hyderabad che parte alle 9.30 di sera e arriva alle 2.30. Trattandosi di 1600 chilometri di distanza si da per scontato che non si tratti delle 2.30 della stessa notte ma del pomeriggio successivo. Può anche capitare che intorno alle 2 del pomeriggio del giorno successivo si abbia l’intuizione di chiedere ai propri compagni di scompartimento quanto manca a destinazione e ci si senta rispondere “dodici ore circa, ma speriamo che faccia ritardo”.
Quella piccola differenza che ci sta tra a.m e p.m. ci era sfuggita e evidentemente non abbiamo ancora imparato che in questo paese non si può proprio mai dare niente per scontato.
Comunque, quando ci sentiamo dare la bella notizia siamo ormai siamo al nostro terzo viaggio in treno nel sub-continente nel giro di una settimana, ed abbiamo già superato con discreto successo quasi tutte le prove necessarie per essere accettate tra i passeggeri autoctoni (non se ne devono vedere molti di turisti su questa rotta). Abbiamo difeso imperterrite le nostre due cuccette dalla più antipatica famiglia indiana, imparato a gestire le relazioni con arroganti matrone in saari, litigato per la sistemazione dei bagagli (alcuni dei quali contenenti bottiglie di plastica riempite di acqua del Gange) e accettato di sedere in otto in uno scompartimento per sei circondate da chiassosi e impertinenti passeggeri che non smettono mai o di mangiare o di dormire. Quindi ci sentiamo sufficientemente padrone della situazione per poter fronteggiare altre dodici ore di viaggio. L’unica cosa che ci desta un po’ di preoccupazione e disappunto è l’arrivo alla stazione. Non sono molti i posti in cui si può andare alle due e mezzo di notte in una città che non si conosce e in cui non si riesce a prenotare una camera d’albergo per telefono. Risolviamo che la soluzione migliore è probabilmente attendere l’alba in stazione.

Il treno poi e' pure arrivato in anticipo, cosi' abbiamo sperimentato anche come si dorme (poco e male) nella sala d'aspetto della stazione Secunderabad-Hyderabad. Abbiam deciso che questo viaggio le mettiamo nel curriculum
 
posted by Chiara at 14:41 | Permalink | 0 comments